Mindhunter è una serie prodotta da Netflix con la regia di David Fincher. La recensione della seconda stagione su Diario di Rorschach
E’ finalmente uscita la seconda stagione di Mindhunter, un piccolo gioiellino seriale che verso la fine del 2017 aveva esaltato critica e pubblico.
La serie Netflix ideata da Joe Penhall e prodotta, tra gli altri da David Fincher e Charlize Theron è incentrata sulla storia della nascita di un nuovo tipo di indagine investigativa basata sulla scoperta e l’analisi dei serial killer.
Ritroviamo la squadra capeggiata da Holden Ford (Jonathan Groff) e composta da Bill Tench (Holt McCallary) e Wendy Carr (Anna Torv) alle prese con un cambio ai piani alti del Federal Bureau. Robert Shepard ha lasciato il timone, anche a causa di quanto accaduto alla fine della prima stagione.
Shepard è sempre stato molto critico tanto nei confronti di Holden Ford, quanto nei metodi utilizzati dal team.
Il nuovo capo dell’unità è invece interessato allo sviluppo di queste teoria scientifiche e sovvenziona il team allargandolo e portandolo dal basement ai piani alti dell’ufficio con la promessa da parte di Ford di ottenere risultati significativi.
Dalle interviste ai vari Ed Kemper, David Berkowtiz, Richard Speck, Jerry Brudos si ricava non solo una categorizzazione dei vari tipi di serial killer, ma anche spunti importanti per risolvere casi aperti. Notevole, da questo punto di vista è il caso dello strangolatore BTK, killer che ha ucciso ventiquattro persone in quel di Atlanta, prevalentemente afroamericani e di giovane età.
La seconda stagione di Mindhunter si muove tra 1978 e il 1981. Gli anni degli Atlanta Child Murders che permette alla serie di aprire al racconto delle tensioni razziali in cui, da sempre, affonda l’America. Di conseguenza la serie si allarga: non si parla solo di capire i serial killer – straordinaria, da questo punto di vista è la scena dell’intervista a Charles Manson – ma anche di provare a comprendere l’Uomo alle prese coi grandi cambiamenti nella società.
A dirigere gli episodi il tocco inconfondibile di David Fincher che, dopo Seven e Zodiac, torna ad esplorare le menti dei serial killer e le motivazioni che li spingono ad agire. La seconda stagione privilegia il dialogo all’azione, creando una tensione palpabile dai primissimi frame della prima puntata, frame che riguardano un misterioso assassino.
Come nelle prime dieci puntate anche l’analisi psicologica e intima dei protagonisti è di fondamentale importanza. Dagli attacchi di panico di Holden, alle premure di Bill in famiglia – e alle preoccupazioni che solo un padre di famiglia può avere – all’innamoramento di Wendy. Il tutto raccontato solo una gelida fotografia – curata da Erik Messerschmidt – e alla regia di David Fincher, un maestro nel portare l’orrore e la follia nella quotidianità.
Complessivamente la seconda stagione di Mindhunter è ancora più interessante, articolata e amara della prima. In particolare il secondo blocco di puntate svela, pian piano, un finale molto amaro e per nulla consolatorio, in pieno stile David Fincher.