Dal grunge a Neil Young, passando per Kurt Cobain, Roskilde e ovviamente Chris Cornell. Ecco la storia dei Pearl Jam, i sopravvissuti del grunge
Siamo nel 1984. Jeff Ament, bassista, e Stone Gossard, chitarrista, fondano i Green River. Nel 1988 pubblicano Rehab Doll primo e unico disco della band che l’anno prima si era sciolta. I due superstiti fondano, assieme a Andrew Wood, i Mother Love Bone. Il successo del gruppo è importante ma la morte di Wood, avvenuta per overdose di eroina il 19 marzo 1990, pone fine ai sogni di gloria dei due.
Ament e Gossard, demoralizzati ma intenzionati a continuare la loro avventura musicale, iniziano a lavorare con Mike McReady, chitarrista di Seattle. I tre registrano qualche demo e la inviano al loro amico Jack Irons, ex batterista dei Red Hot Chili Peppers. Irons a sua volta contatta un amico di vecchia data, Eddie Vedder e gli gira le demo. Il cantante scrive testi e melodie e rigira il materiale ai tre. In poco tempo Vedder diventa il cantante della band, assieme a Dave Krusen che invece ne diventa il batterista. Nascono i Pearl Jam.
Il quintetto entra in studio di registrazione in un clima di fervore. Le collaborazioni e le amicizie tra i vari membri del gruppo – come i Soundgarden – creano un clima di condivisione che sfocia in Ten. Il disco esce il 27 agosto 1991 in piena epoca grunge. Qualche settimana dopo sarebbe uscito Nevermind dei Nirvana, BloodSugarSexMagik dei Red Hot Chili Peppers e Badmotorfinger degli stessi Soundgarden.
Il successo di Ten è veloce, immediato e letale. Brani come Alive, Black, Jeremy, Even Flow raccontano un’America buia. Un’America solitaria, disperata, disillusa. Jeremy è la storia di un ragazzo che si suicida in classe, Black è un brano su una storia d’amore finito, Alive racconta di un bambino che scopre che il suo vero padre è morto quando era piccolissimo.
Le nuove generazioni si innamorano dei Pearl Jam e di tutto il grunge in generale, un cocktail spietato di riff hard rock, condito da un atteggiamento tipicamente punk.
I testi del primo LP dei Pearl Jam attirano l’attenzione della stampa. Ten è un disco variegato dove trovano spazio i riff anni settanta di hendrixiana memoria – Even Flow, Alive – e cambi di tempo repentini e furiosi – Porch – arricchiti dal dolce arpeggio di Garden o dall’introspezione di Oceans. Ten è un disco grezzo – la produzione non lascerà soddisfatti i membri del gruppo per primi – al contrario del pulitino Nevermind, ma racchiude l’anima dei Pearl Jam che subito dopo l’uscita del disco registrano l’abbandono di Dave Krusen per il più poliedrico Dave Abruzzese.
Il tour di Ten vede la band passare dall’anonimato alla celebrità mondiale.
Nel 1993 la band pubblica VS. L’LP è ancora più rabbioso e violento del precedente. L’impressione è che la band abbia affinato in studio sia la tecnica che l’affiatamento collettivo. VS è il capolavoro dei Pearl Jam. Un disco che non lascia respiro all’ascoltatore che viene cullato da alcuni brani acustici di pregio come Daughter, Eldery Woman o la conclusiva Indifference. In mezzo ci sono brani aggressivi – Animal, Blood, Go – al limite del punk e alcuni più sperimentali come Rats, WMA, brano tribale sulle violenze della polizia sui cittadini comuni. Prodotto da Brendan O’Brien, VS è un successo di pubblico e critica. Nel frattempo il fenomeno grunge inizia ad affievolirsi. Nonostante ci siano numerose band in giro – Nirvana, Alice In Chains, Smashing Pumpkins, Soundgarden, Stone Temple Pilots – molte di queste entrano in crisi a causa del successo immediato. Anche i Pearl Jam non restano indifferenti al successo, ma decidono di non pubblicare video o interviste per VS.
La stessa filosofia verrà adottata per Vitalogy terzo disco della band.
Il terzo disco dei Pearl Jam esce, quasi a sorpresa, il 6 dicembre 1994. Profondamente influenzato dagli avvenimenti del periodo – su tutti la morte del rivale/amico Kurt Cobain – l’album presenta pezzi più crudi che in passato e giunge in un momento in cui la band dimostra un perfetto equilibrio tra la rabbia dei primi album e una profonda maturazione. Vitalogy è un disco equilibrato. Perfettamente distribuito da dolci ballate – Nothingman, Immortality – e da brani classici – Betterman – per passare a pezzi più rock – l’opener Last Exit cita la morte di Kurt Cobain, Whipping, Corduroy, Spin the Black Circle – e brani più sperimentali come Bugs e Stupid Mop. Tutti i brani di Vitalogy sono diventati, da subito, instant classic.
Vitalogy è l’album più sorprendente dei Pearl Jam, un album perfettamente bilanciato. Nel 1995 Dave Abruzzese abbandona la band, viene sostituito proprio da Jack Irons che anni prima aveva girato il materiale di Jeff Ament e Stone Gossard all’amico Eddie Vedder.
Ormai è chiaro che i Pearl Jam non sono un fenomeno passeggero. La morte del grunge è stata segnata dal disco Sleeps With Angel di Neil Young. Proprio con Neil Young la band stringerà un rapporto profondo. Nel 1995 esce Mirror Ball. Il disco esce ufficialmente a nome del solo canadese e il quintetto di Seattle viene citato fra i musicisti di accompagnamento nei crediti del disco.
A nome della band esce L’EP Merkinball, costituito da due brani registrati nelle medesime session: I Got ID è un rock ruvido arricchito da un’emozionante cavalcata elettrica finale mentre Long Road è una splendida ballad che dimostra la perfetta maturità dei Pearl Jam.

L’ultimo chiodo sulla bara del grunge è No Code. Esce nel 1996 e si distacca dal vecchio sound della band di Seattle, sempre più aliena alle logiche di mercato e di promozione. Nell’album è presente una certa varietà di stili differenti rispetto al passato, si comincia con i bassi di Sometimes, per passare a brani come Hail, Hail, che ricordano vagamente il passato, all’armonica a bocca di Smile o al sitar elettrico di Who You Are.
No Code è un disco variegato dal punto di vista musicale. Racconta dei Pearl Jam di ieri – Bad Habit, la nevrotica Lukin, Hail Hail – e di quelli di domani, sempre più vicini a certe atmosfere acustiche – Around The Bend, Off He Goes rappresenta il manifesto dei nuovi Pearl Jam – e che non disdegnano momenti lisergici come nel caso di Who You Are o di I’m Open. Su tutti spicca Present Tense, apice compositivo dei Pearl Jam di No Code, un disco spirituale.
Senza più l’etichetta del defunto grunge addosso e benedetti da un certo Neil Young, il gruppo decide di sperimentare e di concentrarsi su stili diversi rispetto al passato. Forse anche per questo passaggio inevitabile per la band, l’album non ha avuto grande successo come i precedenti, anche se molti viene considerato il migliore della band.
Due anni dopo No Code i Pearl Jam presentano Yield. Ma molto è cambiato, la band, ormai matura, accetta di farsi fotografare dal celebre Anton Corbijn per una serie di affascinanti scatti promozionali. Il gruppo torna anche a concedere interviste. Yield è un ritorno verso sentieri già battuti, con sostanziali riferimenti al passato – Brain Of J. è un chiaro riferimento a Kennedy, Given To Fly è una citazione di Going To California dei Led Zeppelin – ma la sensazione è quella di trovarsi dinanzi a una band nuova, più equilibrata anche al suo interno.
Do The Evolution è il primo video dai tempi di Jeremy dei Pearl Jam. E’ una critica verso la società del consumismo. Inoltre, in questo periodo esce Single Video Theory, un make of dell’LP dove i singoli componenti della band affrontano demoni personali e suggestioni.
Yield è un album maturo, indubbiamente condito da brani tirati – Faithfull, MFC, In Hiding – e altri più introspettivi. Chiude il disco la splendida All Those Yesterdays. Chi pensa che la maturità della band regali equilibrio si sbaglia. Dopo l’uscita di Yield Jack Irons abbandona la band, venendo immediatamente sostituito da Matt Cameron, già dietro le pelli degli all’epoca sciolti Soundgarden.
Live On Two Legs è il resoconto del tour mondiale del 1998 dove si può ascoltare il lavoro dietro le pelli di Cameron.
La maggior hit dei Pearl Jam arriva, invece, nel 1999, grazie al singolo Last Kiss, una cover pubblicata con lo scopo di raccogliere fondi da devolvere ai rifugiati del Kosovo.
Nel 2000 la band pubblica l’affascinante e misterioso Binaural.
Binaural si segnala per un cambio di produzione e per il tentativo di rivestire i brani di un suono più avvolgente e caldo. Esce nel maggio 2000 rivelandosi l’album più riflessivo e crepuscolare dei cinque. Evidenti sono alcuni richiami ai Pink Floyd, basti ascoltare l’assolo di Mike McCready in Nothing As It Seems o ai repentini strappi nella brusca Insignificance altro brano molto sottovalutato all’interno della discografia dei Pearl Jam.
Il trittico iniziale composto da Breakerfall, God’s Dice e i nevrotici cambi di tempo in Evacuation – scritta da Matt Cameron – dimostra la potenza muscolare dei Pearl Jam.
I migliori brani si trovano però nel cuore del disco: Light Years è una dolce ballata impreziosita dalla potenza di Matt Cameron, la pinkfloydiana Nothing As It Seems ha uno dei migliori assoli di McReady, Thin Air è una ballata acustica impreziosita dal basso di Ament, autore del brano. Of The Girl è un blues sporco e visionario, mentre Soon Forget mostra la passione di Vedder per l’ukulele. Oscuro, nero ma anche caldo e avvolgente, Binaural è un disco dalle mille facce, dove ancora una volta la band di Seattle dimostra di saper andare oltre il suono delle proprie radici.
Il 2000 è anche l’anno dell’ascesa di Napster. Il gruppo decide di registrare ogni show del loro Binaural Tour del 2000, in maniera professionale a causa della crescente richiesta di bootleg illegali. Ancora oggi si possono trovare in rete. Il tour europeo finisce con la tragedia del Roskilde Festival il 30 giugno. Nove persone tra il pubblico vengono schiacciate e soffocate dalla folla che si avvicinava al palco il tutto sotto gli occhi degli stessi Pearl Jam. Il gruppo entra in crisi. Nonostante tutto pochi mesi dopo la band intraprende un tour per l’America Settentrionale. Con la conclusione del Binaural Tour, il gruppo pubblica Touring Band 2000, contenente una selezione dei concerti del tour nordamericano.
In seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, Vedder e McCready si uniscono all’amico Neil Young per suonare la canzone Long Road all’America: A Tribute to Heroes, un concerto di beneficenza. Il ricavato del concerto, tenutosi dieci giorni dopo l’attentato viene devoluto a favore delle famiglie delle vittime.
Roskilde, l’11 settembre, l’elezione di Bush. L’America sembra essere tornata indietro di decenni. La rabbia ritorna a emergere. Riot Act esce il 12 novembre 2002 ed è il disco più maturo, rabbioso e profondo dei Pearl Jam. Il disco è segna una nuova svolta del gruppo. Brani come I Am Mine, Save You, Green Disease, Ghost mostrano la forza del collettivo – che si arricchisce della presenza all’organo dell’hawaiano Kenneth Boom Gaspar – ma altri come l’opener Can’t Keep, Love Boat Captain, Thumbling My Way sembrano citare Bruce Springsteen, Bob Dylan, Neil Young.
I Pearl Jam diventano adulti, raccontando, come i loro maestri le ingiustizie di un’America solitaria e rabbiosa.
Riot Act è un disco profondo che alza l’asticella del suono dei cinque. Il grunge diventa più consapevole ma non perde la sua rabbia. Riot Act è l’ultimo, grande disco dei Pearl Jam.
Il 2 maggio 2006 esce l’eponimo Pearl Jam. L’album si pone come un ritorno ai suoni di VS ma in generale l’atmosfera è volutamente abrasiva. La produzione di Adam Kasper non brilla e il disco – nonostante ottimi brani come Inside Job, Come Back, Gone guarda caso tutte ballad – segna un riciclo di vecchie idee. Pearl Jam si pone all’opposto del precedente disco. Laddove c’era una produzione calda e uno studio quasi minuzioso del suono, in Pearl Jam si ha l’impressione che i brani siano figli di lunghe jam session. L’idea è quella di portare il suono sporco dei Pearl Jam direttamente nelle case dei fan.
I testi raccontano dell’America post 11/9 tra visioni di guerra, famiglie spezzate e lavoratori licenziati senza speranza, citando il lavoro di Bruce Springsteen.
Tre anni più tardi Backspacer segna un passaggio a gradazioni più soft, con l’umore generale che si fa più disteso e solare. Se Pearl Jam puzzava di rabbia, di una sporca, cattiva e cantautoriale impotenza, Backspacer è invece un disco fighetto – la produzione di Bredan O’Brien esalta al meglio tutti gli strumenti – solare, dove gli assoli di McCready diventano acqua nel deserto.
Rock classico, veloce con qualche svenatura punk e qualche episodio cantautoriale – Just Breathe, The End, Speed Of Sound – assieme a brani dimenticabili – The Fixer, Supersonic – o già ascoltati. Nel 2013 la band pubblica Lightning Bolt. Con la fama di band seminale dal vivo – tutti gli show sono registrati in formato audio professionale, mentre la scaletta varia concerto dopo concerto, tra brani ufficiali, b-side, cover e chicche – il quintetto dà alle stampe un disco riassuntivo della loro carriera. Il primo brano ufficiale Mind Your Manners riporta l’ascoltatore ai tempi di Vitalogy, mentre My Father’s Son cita Alive. Citazioni della carriera solista di Vedder si trovano in Sleeping By Myself mentre Sirens e Future Days mostrano il lato più leggero e romantico della band. Discorso a parte meritano Pendulum e Infallible, indubbiamente i due brani più notevoli all’interno di un disco fiacco e che non presenta particolari innovazioni.
Nonostante gli ultimi dischi non raccontino nulla di nuovo, dal vivo la band dimostra di saperci fare eccome. Con lo scettro di sopravvissuti del grunge, i Pearl Jam portano, con il loro show, un’indimenticabile esperienza, specie in un periodo storico dove il rock sembra che non abbia più nulla da dire. I Pearl Jam sono impegno civile, sono rock, sono analogici. Fortemente coerenti con sé stessi e la loro idea di musica. Lunga vita ai Pearl Jam.