Blade Runner 2049 è un sequel simile e differente rispetto al film di Ridley Scott del 1982. La recensione su Diario di Rorschach
Denis Villeneuve ha fatto di nuovo centro. Partito qualche anno fa con una serie di film interessanti – Incendies, Prisoners, Enemy – è riuscito a conquistare il grande pubblico grazie al successo di Arrival, giudicato uno dei migliori film della scorsa stagione cinematografica. Ma la vera prova di maturità per il regista canadese era senza ombra di dubbio Blade Runner 2049.
Sono secoli che si parla di un sequel per il film diretto da Ridley Scott nel 1982. Tante questioni erano lasciate in sospeso e il crescente numero di fan facevano credere nella realizzazione di un sequel. Tuttavia una serie di problemi e di interferenze hanno fatto slittare il film. Forse serviva l’occhio giusto. Quello di Denis Villeneuve.
Realizzare il sequel di uno dei film più apprezzati e chiacchierati della storia del Cinema non era impresa facile. Era più facile creare una pellicola buonista, poco originale, strettamente connessa con la precedente. Ruffiana.
E invece no. Blade Runner 2049 vive di vita propria, si serve dell’universo creato dalla penna di Philip K. Dick ma usa quello stesso universo per raccontare una storia che si distacca il più possibile da primo lungometraggio.
Sono passati trent’anni dagli eventi visti nel film di Ridley Scott che si svolgevano nel 2019. Dopo una serie di violente rivolte avvenute nel 2020, i replicanti prodotti dalla Tyrell sono stati messi al bando. Nello stesso anno, un black-out ha distrutto quasi completamente ogni dato digitale del pianeta. Gravi cambiamenti climatici hanno dato il via a una stagione di miseria, cui si è sopravvissuti solo grazie alle colture sintetiche della Wallace, una società con a capo Neander Wallace (Jared Leto) che – grazie a quei profitti – ha acquisito anche le tecnologie della Tyrell, sviluppando una nuova serie di replicanti completamente ubbidienti all’Uomo.
L’agente K è un Blade Runner incaricato di eliminare, terminare, pensionare alcune vecchie versione di replicanti, ormai obsolete. Mentre ne sta eliminando uno fa una scoperta clamorosa.
Una scoperta che potrebbe cambiare il destino dell’Umanità per sempre.
Se nel primo film il conflitto era tra l’Uomo e l’Altro (ossia il replicante) in Blade Runner 2049 il conflitto è interiore, quasi intimo. Chi è l’agente K? Cosa è l’agente K?

Nel corso delle sue indagini, l’agente K inizia a nutrire dei dubbi sulla moralità del suo operato, persino sulla sua natura e sui suoi ricordi, ammesso che siano veri.
Arriva a incrociare la sua strada con quella di Rick Deckart (un solido Harrison Ford), svanito nel nulla trent’anni prima senza lasciare alcuna traccia di sé. Rick è la chiave del film, fondamentale per capire e scoprire un segreto tenuto nascosto troppo a lungo. Un segreto fondamentale per l’Uomo.
In questo senso è significativo il personaggio di K, interpretato da un sempre affidabile Ryan Gosling. L’agente K è tormentato, sa o pensa di essere un ibrido, ovvero il figlio di un Uomo (Rick Deckart) e di un androide (Rachel). In questo universo di dubbi e questioni esistenziali svolgono un ruolo-chiave proprio i ricordi.
Quello che sappiamo è quello che è davvero accaduto? I ricordi sono impiantati, sono di qualcun altro o sono i nostri?
A fare da sfondo a questo film di inquietudine e mistero, la città di Los Angeles. Se nel primo Blade Runner la città era una viavai di gente, culture, lingue, rumori, ora siamo davanti a una città quasi deserta, sporca, morente. Il clima oscuro e nauseabondo del primo Blade Runner rimane, ma viene amplificato ancora una volta dalla pioggia, dalla neve e da una sensazione di freddo che circonda lo spettatore, quasi come se fosse a fianco dell’agente K.
L’Uomo è sempre più solo, sempre più isolato. Obsoleto. La compagnia ideale è una donna virtuale – inquietante la scena di sesso tra l’agente K e la sua donna – le amicizie non esistono e il problema, l’unico problema può essere l’invasione dei replicanti o peggio ancora la commistione tra loro e l’Uomo.
Blade Runner 2049 ha poco della struttura noir che ha fatto la fortuna del primo film. Questo secondo capitolo è un film di fantascienza con scenografie immense – curate da Dennis Gassner – e la fotografia spettacolare di Roger Deakins che dovrebbe ottenere senza problemi la sua quattordicesima (!) candidatura ai prossimi Oscar.
La musica originale del primo film curata da Vangelis ogni tanto appare, come appaiono di tanto in tanto citazioni alla prima pellicola. Tutto ben dosato.
Oltre a un affidabile Ryan Gosling, ritorna Harrison Ford che torna a vestire i panni di Rick Deckart. Il villain del film è Neander Wallace interpretato da Jared Leto, ormai a suo agio nel vestire ruoli insoliti e difficili. Il suo scopo è quello di trovare questo ibrido per creare una nuova razza. O per dominarla?
Altri attori sono Ana de Armas nel ruolo della ragazza di K. Sylvia Hoeks nei panni dell’aiutante di Wallace, un cattivo in piena regola anche di più del personaggio di Leto. Robin Wright, Mackenzie Davis – vista in una puntata di Black Mirror, San Junipero e non è un caso – e Carla Juri.
Denis Villeneuve, conscio che il primo film era ovviamente imparagonabile, tira fuori un bel film, assolutamente godevole. Aggiorna l’universo di Blade Runner con nuove tematiche come la virtualità sempre più presente, il black-out, l’inquinamento, la sopravvivenza della razza umana. E fa centro.
Il finale del film fa presagire – qui lo diciamo e qui lo neghiamo – un eventuale sequel. Al momento non ci sono conferme. Sicuramente creare un terzo capitolo non sarà facile, come facile non è stato dare vita a un sequel che non solo amplifica il messaggio filosofico del primo film, ma lo supera con nuove questioni ancora più scottanti. Un’espansione dell’universo del primo film.
Per il momento vale la pena godersi questo Blade Runner 2049, uno spettacolo per gli occhi e per la mente.