Brickleberry, il parco naturale più scorretto degli States. La recensione della serie animata su Diario di Rorschach

Brutti, sporchi, cattivi e spesso esagerati.
Può essere descritto con queste poche parole Brickleberry, serie animata creata dai comici statunitensi Roger Black e Waco O’Guin e andata in onda dal 2012 al 2015 per ben tre stagioni su Commedy Central (su Fox la versione italiana).
Nata sulla scia delle più famose serie americane, Brickleberry riesce non solo ad andare oltre ogni limite, tanto morale quanto materiale, ma anche a creare una vera e propria realtà nonsense che oltrepassa il surreale.
Le trentatre puntate autoconclusive, che fanno il verso ai più celebri episodi di Hanna-Barbera sull’Orso Yoghi e il Parco di Jellystone (storpiatura del famoso Yellowstone) – spesso citato come diretto concorrente – , ruotano attorno le disavventure del Parco naturale di Brickleberry e dei suoi rangers.
Ad accompagnare la strampalata vita di Woody, capo ranger violento, antipatico e spesso razzista, Steve, Ethel, Denzel e Connie c’è l’orsetto Malloy, mascotte del parco, che oltre a parlare si mostra al pubblico come l’insieme di tutti gli eccessi possibili tipici di una vita trasandata.
La particolarità, e la genialità, della serie animata può essere riscontrata in diversi elementi che rendono Brickleberry una vera e propria perla del genere tanto da raggiungere livelli visti, fino al suo esordio, solamente in South Park.
Un primo e maggiormente visibile dato è da rilevare nella caratterizzazione dei singoli personaggi.

Ai rangers sui generis, stereotipati secondo una visione generica sia dell’americano medio che del mestierante scansafatiche, si affiancano ulteriori personaggi che da un lato rappresentano la convenzionale figura opportunistica tipica dei giorni nostri – su tutti il capo di una comunità redneck Bobby Possumcods, che spesso e volentieri cambia idea in base alla propria convenienza – e dall’altro l’estremizzazione del tutto reso, naturalmente, in salsa ironica e quanto più politicamente scorretta.
Altra peculiarità è data dal linguaggio, di frequente scurrile, che facendo storcere il naso alla maggior parte dei benpensanti rappresenta lo slang isterico dettato da una vita disordinata fondata sugli eccessi e, allo stesso tempo, un modo di porsi verso l’altro, e verso il diverso in particolar modo, ahimè tipico della società odierna.
In sintesi si può dire che Brickleberry tenta di raggiungere differenti obiettivi attraverso la sua tagliente (fin troppo) ironia in cui da un lato si mettono a nudo tutte le cattive pratiche caratterizzanti gli anni passati, portandole chiaramente all’estremizzazione, e dall’altro si allerta lo spettatore su ciò che potrebbe essere qualora le stesse fossero portate ai limiti dell’immaginabile.