La confraternita dell’uva, il romanzo della maturità di John Fante. La recensione dell’opera su Diario di Rorschach

Una famiglia sui generis, una lotta generazionale e un pizzico di ironia che non guasta mai.
I tre elementi, fondamentali per letteratura di genere, si rendono indispensabili in una delle opere più apprezzate di John Fante: La confraternita dell’uva.
Scritto nel 1977 (edizione italiana del 1990), l’opera è uno dei romanzi più originali e romantici dell’autore statunitense di chiare origini italiane.
Proprio le origini, unite all’eterna lotta generazionale, rappresentano il fulcro de La confraternita dell’uva che, al pari di altri scritti, tende ad evidenziare con tutte le sue sfumature un sorta di realismo ironico tipico di uno degli scrittori più apprezzati da Charles Bukowski.
La trama verte attorno le vicende di Henry Molise – alter ego dello scrittore e protagonista di altre sue storie – , scrittore cinquantenne originario di San Elmo, e la sua disastrata famiglia di immigrati italiani.
I Molise, i cui particolari (a dir poco) componenti sono funzionali sia alle vicende che alla stessa caratterizzazione della famiglia, si muovono nella piccola città USA fra le difficoltà di adattarsi ai nuovi ritmi di vita, le rimostranze dei locali nei confronti degli italiani – che molto ricordano i nostri atteggiamenti nei confronti degli immigrati del XXI secolo – e il buon vino.
Il vino, assieme ad Henry e suo padre Nick – muratore di altri tempi e noto bevitore che non sopporta moglie e figli, colpevoli in particolar modo di non aver seguito le orme lavorative del padre – , è il vero protagonista dell’intera vicenda, attraverso una sorta di scansione temporale che divide il romanzo in diversi parti, divenendo fulcro della narrazione grazie alle gioie e i dolori narrati dall’autore.
Infatti, l’ubriachezza molesta di Nick – che praticamente rovina la vita di ogni membro della famiglia a causa dei suoi modi di fare rudi e spesso violenti – ,lo scontro fra culture e la ricostruzione di un legame familiare fin troppo debole si mescolano al vino a tal punto da far divenire, indirettamente, quella bevanda come un filo sottile che lega inevitabilmente il passato, il presente ed il futuro dei Molise.
In questo insieme di elementi, tipici della scrittura dell’autore, se ne inserisce un altro che segna indelebilmente lo stile unico di Fante: il rapporto padre – figlio.

Questo, icluso nel consueto mondo di amore/odio – che Fante imposta come base di tutti i suoi scritti – , riesce a raggiungere diverse mete che permetteranno al protagonista di maturare, comprendere e cambiare in base a quanto quegli ultimi istanti di vita familiare gli offrono.
Difatti, rispetto all’atteggiamento cinico e conflittuale verso il mondo (e la famiglia in particolar modo), Henry plasma la sua personalità rendendosi nel finale pienamente consapevole della sua crescita personale.
L’immancabile ironia, infine, riesce non solo a descrivere scene di vita quotidiana in maniera perfetta – esilarante è la telefonata con il fratello intervallata dai litigi fra questo e la sua famiglia – ma anche a far rivivere, in maniera molto personale, alcuni attimi della propria esistenza al lettore al punto di far comprendere esattamente il punto di vista del protagonista e il contesto in cui lo stesso si muove.
“Ragazzo! – abbaiò mio padre, – scarica un pò quel furgone – . Era il suo difetto peggiore: la sindrome del capo, del pezzo da novanta.” (La confraternita dell’uva, John Fante)