92 minuti di applausi torna con il secondo tributo a Paolo Villaggio. In questo nuovo appuntamento su Diario di Rorschach la recensione di Io speriamo che me la cavo
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Nella sua carriera Paolo Villaggio ha interpretato diversi ruoli che, con differenti caratteristiche in base al contesto in cui si trovavano, gli hanno permesso tanto di mostrare la sua grandezza artistica quanto di mettere in evidenza la poliedricità dell’attore e scrittore genovese.
Infatti, accanto alla maschera di Fantozzi – divenuta celebre per i diversi film e per le storie tipicamente italiane – , si possono ritrovare tanti altri personaggi rimasti nel cuore degli appassionati.
In questo secondo, e penultimo, appuntamento con 92 minuti di applausi – rubrica dedicata a Paolo Villaggio, di recente scomparso – tratteremo uno dei film più discussi e amati della nazione: Io speriamo che me la cavo.
Pellicola del 1992, diretta dall’eccentrica Lina Wertmüller, nasce con l’arduo obiettivo di rendere omaggio all’omonimo libro del maestro Marcello D’Orta, in cui sono raccolti sessanti temi svolti da ragazzi di una scuola elementare della città di Arzano(Napoli).
Trattandosi di una raccolta di storie a vario tema e non di un romanzo, l’impresa è stata realmente di grandi dimensioni dovendo costruire dalla base una narrazione al cui interno inserire i pensieri raccolti dal maestro nella scuola.
Le scelte di Lina Wertmüller, geniale come sempre nelle sue “creazioni”, si sono soffermati su diversi aspetti, per lo più tecnoco – logicisti, e su un elemento fondamentale per l’intera storia: il maestro, co-protagonista accanto ai bambini.
La decisione di affidare a Villaggio questo ruolo fece storcere il naso a più di qualcuno ma grazie alla stupenda interpretazione del personaggio furono in tanti a ricredersi dopo la visione del film.
La trama ruota attorno alle vicende del maestro Marco Tullio Sperelli che, per un errore di trascrizione, viene spedito in una scuola dell’hinterland napoletano.
In questa nuova realtà, dopo aver scoperto situazioni particolari (scarsa scolarizzazione, famiglie travolte da problemi di tutti i giorni che si ripercuotono, inevitabilmente, sui bambini), il maestro, all’inizio scontento, riesce ben presto ad adattarsi e a trovare una nuova dimensione in quel romantico posto che è Corzano (luogo inventato per l’occasione).
Dopo aver creato un vero e proprio legame con quei bambini e quel luogo, il maestro, però, viene richiamato a insegnare nel suo territorio di origine.

In Io speriamo che me la cavo, Villaggio mostra tutta la sua strordinaria capacità artistica non solo uscendo totalmente dal personaggio che fino a quel momento lo aveva categorizzato – Fantozzi, appunto – ma creando una nuova maschera totalmente diversa dal perseguitato ragionere.
Marco Tullio Sperelli, difatti, è un uomo tutto d’un pezzo, dai forti valori sociali e dalla volontà di concepire la scuola come il luogo di condivisione delle idee e non come una gabbia in cui sono presenti gerarchie (di qualcunque tipo).
Tutto ciò è rafforzato dall’immenso romanticismo espresso dallo stesso maestro: l’esplosione di sentimenti, tanto per il posto quanto per i bambini, rimarca da un lato l’umanità dell’uomo e dall’altro la sensibilità di un personaggio presentatosi come cinico e duro.
Infine, non possono non essere considerati i veri pilastri dell’intero film: i bambini.
Grazie alla loro spontaneità, che permetterà anche al maestro di maturare, riescono a descrivere egregiamente una situazione che li pone all’ultimo gradino della scala sociale – avvolta nei cliché di particolari zone del mezzogiorno d’Italia – e, contemporaneamente, immaginare un riscatto tenendo ben presente la realtà del luogo in cui vivono.
Menzione speciale al genio artistico di Lina Wertmüller, che oltre a caratterizzare alla perfezione un ambiente come quello desunto dalle pagine del libro di D’Orta, regala una serie di emozioni legate al mondo della scuola e quello delle “periferie”.
92 minuti di applausi.
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